La mafia dell’antimafia

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di Giuseppe Stefano Proiti

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I protagonisti di questo sistema sono professionisti dell’odio. Implacabili giustizialisti giacobini con gli avversari, e teneri garantisti con gli amici. Chi è con loro è contro la mafia, chi non è con loro è mafioso. Questo è il cerchio magico che da dieci anni decide i componenti del governo e persino la durata di un assessore. Questa è una cricca. Che usa il potere dell’intimidazione. Per questo motivo si può parlare di mafia dell’antimafia.

Ecco, uno stralcio dell’intervento in Sala d’Ercole dell’on. Nello Musumeci, alla fine del quale – lo scorso 15 marzo – ha annunciato le dimissioni dalla presidenza della Commissione antimafia e contestualmente la sua possibile candidatura alla Presidenza della Regione.
Ebbene, come si potrebbero commentare queste parole? In buona sostanza così: nulla di nuovo sotto il sole! Il tema dell’antimafia usato a fini “propagandistici”, come clava contro gli avversari politici, viene ribadito dall’onorevole Musumeci, ma è un fatto conclamato da quarant’anni a questa parte.
Esisteva già da quando lo ripeteva, inascoltato, nel 2010, Vittorio Sgarbi da sindaco di Salemi, denunciando quanti, tra giornalisti, investigatori e magistrati, s’inventavano la mafia anche là dove non c’era, pur di perpetuare l’ ”antimafia di professione”. Per fare carriera, gestire beni, ottenere privilegi e danari pubblici.
Ma andiamo più a ritroso nel tempo: lui era un meridionalista d’indiscussa fede e convinzione. Che questo spinoso e delicato tema gli stesse particolarmente a cuore è facilmente intuibile.
Non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet, ma anche i romanzi e i racconti sono sempre attraversati da interrogativi divisivi sulle gravi questioni etico-politiche riguardanti la vita del Paese: i rapporti fra Giustizia e potere, fra Stato e diritto, fra Stato e mafia, fra verità e impostura.
Leonardo Sciascia in tutta la sua vita e in ogni suo scritto divise l’establishment, divise il pubblico critico e non, al punto da aggiudicarsi l’appellativo di “scrittore politico”. Lo è stato più di qualsiasi altro letterato del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini.
La sua “politicità” non offusca la sua grandezza letteraria; anzi vanno di pari passo e si alimentano a vicenda. Chi, come Piero Citati, sostiene che la sminuisca, affermando addirittura che dalla sua opera si dovrebbe eliminare – allo stesso modo del “primo Calvino” – “l’ultimo Sciascia”, dovrebbe in realtà chiarire dove inizi, a suo giudizio, “l’ultimo Sciascia”.
Comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde – come giustamente ricorda Gianfranco Spadaccia – l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia”, perché dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. Dunque, a vederci bene, non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci.
Insomma, c’è “del politico” in Sciascia, eccome! E questa sua dote “naturale”, anzi, gliela si dovrebbe riconoscere come qualità per eccellenza, prima delle scontate definizioni di “scrittore illuminista”, di “scrittore barocco” (con Calvino e poi con Belpoliti), di “scrittore secco” (con Bufalino e poi con Campbell).

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Leonardo Sciascia, nel tempo in cui la menzogna su “entrambi i fronti” era all’ordine del giorno, fu un profondo “cercatore di verità”… fino alla fine: “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte  – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità“.
E ancora, in uno dei suoi illuminanti interventi (“Corriere della Sera” – 1987), ebbe a porre sul tappeto il problema di un “eccesso di potere” da parte degli organi istituzionali cui per legge era stata demandata la lotta alla mafia (Commissioni Antimafia nazionale e regionale, pool di magistrati ecc.).
Egli fece intendere che all’interno di tali Organismi potesse manifestarsi per finalità di arrivismo politico o di carriera, una qualche forma di perniciosa “tendenza al protagonismo”.
Anche se, come sottolinea Gianfranco Spadaccia, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale antimafia.
Ebbe dunque a tratteggiare, uno scenario dal quale emergeva la preoccupazione per una certa “similitudine” che avrebbe potuto manifestarsi fra i sistemi e i metodi adoperati nei due campi contrapposti.
L’uno, volendo sicuramente rendere più visibile l’impegno legalitario nella lotta al crimine organizzato e alle infiltrazioni malavitose nelle strutture pubbliche. L’altro, nella speranza di poter sfruttare, per fini illegali, le crepe esistenti nel sistema politico delle pubbliche amministrazioni.
Oggi, a distanza di tanto tempo, non sembra necessario aggiungere alcunché al pensiero di quest’illustre uomo!
Leonardo Sciascia sognava di essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. In lui la contraddizione era “vivente”:  il suo “essere siciliano” soffriva indicibilmente del gioco al massacro che perseguiva. Quando denunciava la mafia, nello stesso tempo soffriva poiché dentro di sé, come in ogni siciliano, continuavano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, egli lottava anche contro se stesso. Era come una scissione, una continua lacerazione.

Allora, se si legge con attenzione, questo suo “spirito di contraddizione”, acquista ancor più valore sol che si tenga presente la sua potente ispirazione ideale, verso l’ ”obiettivo puro” finale. Mi spiego: non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti di essa.
Ne costituisce una chiara esemplificazione il suo romanzo più noto. Come ricorda in un suo libro Antonio Giangrande, basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima “vocazione ideale”.
A questo punto, tutto torna nell’infinito “cerchio” del suo illuminismo: un salto così alto da farlo volare al fianco di un Voltaire, di un Diderot.
“Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità”. (Gianfranco Spadaccia)

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